Sentenza Taricco: la Corte di Appello di Milano investe la Consulta ed invoca i “controlimiti” a tutela del principio di legalità in materia penale
A pochi giorni dalla pubblicazione della sentenza CGUE, Causa C-105/14 Taricco ed altri, la Corte di Appello di Milano II Sez. Penale, con ordinanza nel procedimento n. 6421/14 R.G.A. del 18.09.2015, solleva questione di legittimità costituzionale sulla legge di esecuzione del TFUE, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona, nella parte che impone di applicare la disposizione di cui all’art. 325 §§ 1 e 2 TFUE, dalla quale – nell’interpretazione fornitane dalla Corte di giustizia nella sentenza in data 8.9.2015, causa C-105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160 ultimo comma e 161 secondo comma c.p. in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per il prolungamento del termine di prescrizione, in ragione del contrasto di tale norma con l’art. 25, secondo comma, Cost..
I Giudici meneghini, dunque, mostrano di non condividere affatto le conclusioni raggiunte, appena il giorno prima, dalla III° Sez. Penale della Corte di Cassazione che, al quesito
Se, in un procedimento penale riguardante il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto (IVA), il combinato disposto dell’art. 160, ultimo comma, c.p.p. e dell’art. 161 di tale codice – come modificati dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 – il quale prevede che l’atto interruttivo verificatosi comporta il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale: a) è idoneo a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, prevedendo termini assoluti di prescrizione che possono determinare l’impunità del reato, con conseguente potenziale lesione degli interessi finanziari dell’Unione europea; b) comporta l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare le predette disposizioni di diritto interno in quanto possono pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dal diritto dell’Unione“.
ha dato risposta affermativa.
Più cautamente – ed in termini sistematici, più correttamente -, la Corte milanese ha inteso rifugiarsi nei principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale – per tutte, C. Cost 183/1973 e C. Cost. n. 170/1984 -, secondo i quali, in caso di contrasto con una norma comunitaria priva di efficacia diretta, e nell’impossibilità di risolvere detto contrasto in via interpretativa, il Giudice comune deve sollevare questione di legittimità costituzionale tenendo bene a mente che
in base all’art. 11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve quindi escludersi che siffatte limitazioni, concretamente puntualizzate nel Trattato di Roma – sottoscritto da Paesi i cui ordinamenti si ispirano ai principi dello Stato di diritto e garantiscono le libertà essenziali dei cittadini -, possano comunque comportare per gli organi della C.E.E. un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana. Ed é ovvio che qualora dovesse mai darsi all’art. 189 una sì aberrante interpretazione, in tale ipotesi sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali.
C. Cost. 183/1973, § 9
Proprio sulla base di tali considerazioni, i Giudici di Milano hanno ritenuto di non poter disapplicare la norma interna di cui agli artt. 160 ultimo comma e 161 comma 2 c.p.p., dubitando della compatibilità degli effetti di tale disapplicazione con il principio di legalità in materia penale di cui all’art. 25 comma 2 Cost.
La Corte di Giustizia, invero, pure aveva affrontato la questione del possibile contrasto con il principio di legalità, risolvendolo tuttavia attraverso un improvvido richiamo alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Coeme e altri c. Belgio – ric. nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96.
Detta sentenza – utilizzata dalla CGUE per precisare la portata applicativa dell’art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione – giunse all’affermazione di non violazione dell’art. 7 CEDU sulla base delle seguenti considerazioni:
The extension of the limitation period brought about by the Law of 24 December 1993 and the immediate application of that statute by the Court of Cassation did, admittedly, prolong the period of time during which prosecutions could be brought in respect of the offences concerned, and they therefore detrimentally affected the applicants’ situation, in particular by frustrating their expectations. However, this does not entail an infringement of the rights guaranteed by Article 7, since that provision cannot be interpreted as prohibiting an extension of limitation periods through the immediate application of a procedural law where the relevant offences have never become subject to limitation.
The question whether Article 7 would be breached if a legal provision were to restore the possibility of punishing offenders for acts which were no longer punishable because they had already become subject to limitation is not pertinent to the present case and the Court is accordingly not required to examine it, even though, as Mr Hermanus maintained, the Court of Cassation, in the proceedings against him, held that time had been caused to run again by a measure which did not have that effect on the date when it was taken.
The Court notes that the applicants, who could not have been unaware that the conduct they were accused of might make them liable to prosecution, were convicted of offences in respect of which prosecution never became subject to limitation. The acts concerned constituted criminal offences at the time when they were committed and the penalties imposed were not heavier than those applicable at the material time. Nor did the applicants suffer, on account of the Law of 24 December 1993, greater detriment than they would have faced at the time when the offences were committed (see, mutatis mutandis, the Welch judgment cited above, p. 14, § 34).
Coeme e altri c. Belgio, cit., §§ 149 e 150
Dal passaggio appena riportato, dunque, emerge con cristallina evidenza l’inconferenza del richiamo operato ex art. 52 CFDUE dalla Corte di Giustizia nel caso Taricco; il decisum citato, difatti, riguardava una fattispecie in cui l’allungamento dei termini prescrizionali intervenne, nel corso del processo, quando i fatti contestati ancora non erano prescritti; ipotesi, dunque, diametralmente opposta a quella oggetto della sentenza Taricco, ove, invece, il pronunciamento della Corte di Giustizia – e l’auspicata disapplicazione degli artt. 160 e 161 c.p. – interviene a prescrizione già maturata.
In altri e più semplici termini, nel caso Coeme ed altri c. Belgio la questione relativa alla compatibilità convenzionale sub art. 7 CEDU di una “modifica in corso” del regime prescrizionale non venne neppure esaminata, consideratane l’irrilevanza ai fini della decisione del caso concreto.
Anche volendo prescindere da tali rilievi, il nodo gordiano della questione sollevata risiede nella consolidata giurisprudenza costituzionale che – diversamente da quella CEDU, che tendenzialmente ritiene la prescrizione questione procedurale, come tale sottratta al principio del nullum crimen – intende le disposizioni regolanti la prescrizione come norme di diritto sostanziale, parte integrante della legge penale ed, in quanto tali, soggette a tutti i corollari di cui all’art. 25 Cost.
Non a caso, del resto, tutte le q.l.c. tese ad ampliare in malam partem i termini di prescrizione sono sempre state giudicate inammissibili dalla Consulta, proprio sul rilievo che, un eventuale accoglimento, avrebbe comportato un aggravamento sostanziale della responsabilità penale dell’imputato, risolvendosi, di fatto, in un’illegittima ingerenza del Giudice delle leggi in un dominio riservato al legislatore in forza proprio dell’art. 25 Cost.
Dirimenti, in tal senso, le statuizioni contenute in C. Cost. 394/2006:
all’adozione di pronunce in malam partem in materia penale osta non già una ragione meramente processuale – di irrilevanza, nel senso che l’eventuale decisione di accoglimento non potrebbe trovare comunque applicazione nel giudizio a quo – ma una ragione sostanziale, intimamente connessa al principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in base al quale «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso» (ex plurimis, tra le ultime, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002, n. 508 del 2000; ordinanze n. 187 del 2005, n. 580 del 2000 e n. 392 del 1998; con particolare riguardo alla materia elettorale, ordinanza n. 132 del 1995). Rimettendo al legislatore – e segnatamente al «soggetto-Parlamento», in quanto rappresentativo dell’intera collettività nazionale (sentenza n. 487 del 1989) – la riserva sulla scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, detto principio impedisce alla Corte sia di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti; sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (e così, ad esempio, sulla disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi: ex plurimis, ordinanze n. 317 del 2000 e n. 337 del 1999).
Ebbene, nel caso di specie – rileva la Corte di Appello di Milano – la disapplicazione delle norme di cui agli artt. 160 e 161 c.p., imposta dall’art. 325 TFUE nell’interpretazione datane dalla sentenza Taricco, produrrebbe proprio quella retroattività in malam partem osteggiata dalla Consulta, rendendosi dunque necessario rimettere alla Corte Costituzionale la valutazione dell’opponibilità di un controlimite alle limitazioni di sovranità derivanti dall’adesione dell’Italia all’ordinamento UE ai sensi dell’art. 11 Cost., in funzione del rispetto del principio fondamentale dell’assetto costituzionale interno, superiore rispetto agli stessi obblighi di matrice europea.