Matteo De Longis

Sul contraddittorio endoprocedimentale negli accertamenti a tavolino

In tema di estensione delle garanzie previste nell’ambito del c.d. contraddittorio endoprocedimentale anche agli accertamenti effettuati a tavolino, si deve anzitutto prendere atto che, secondo la giurisprudenza della Corte del Lussemburgo – interprete massimo ed ineludibile in tema di riscossione di tributi armonizzati -, tali prerogative devono dispiegare la loro piena efficacia a prescindere dalle modalità con le quali viene effettuato l’accertamento.

La Corte di Giustizia dell’UE, a più riprese, ha sancito la rilevanza fondamentale del diritto al contraddittorio in tutti i rapporti intercorrenti tra P.A. e contribuenti:

“Il rispetto del principio dei diritti della difesa in qualsiasi procedimento promosso nei confronti di una persona e che possa sfociare in un atto per essa lesivo, in particolare in un procedimento che possa condurre a sanzioni, costituisce, come la Corte ha statuito a più riprese, un principio fondamentale del diritto comunitario. Tale principio impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di formulare utilmente le proprie osservazioni (v. sentenze 24 ottobre 1996, causa C-32/95 P, Commissione/Lisrestal e a., Racc. pag. I-5373, punto 21, e 21 settembre 2000, causa C-462/98 P, Mediocurso/Commissione, Racc. pag. I-7183, punto 36)” – così CGUE, Distillerie Fratelli Cipriani SPA c. Ministero delle Finanze, causa C-395/00.

 

Ancora, e con specifico riferimento ai tributi armonizzati, il Giudice del Lussemburgo ha affermato che

il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo. In forza di tale principio i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione. A tal fine essi devono beneficiare di un termine sufficiente (v., in particolare, sentenze citate Commissione/Lisrestal e a., punto 21, e Mediocurso/Commissione, punto 36).” – così CGUE, Sopoprè c. Fazenda Pùblica, causa C-349/07.

Tali principi, lungi dall’essere rimasti isolati obiter dicta del Giudice UE, sono stati fatti propri anche dalla giurisprudenza di legittimità più recente, sempre maggiormente attenta al ruolo esiziale del principio del contraddittorio nella fase procedimentale tributaria.

La recente sentenza Cass. Trib. n. 18184 del 14 maggio 2013 enfatizza il ruolo di tale garanzia, ancorandola ad interessi di fondamentale rilevanza costituzionale:

 “l’art. 12 assume una rilevanza del tutto peculiare, in ragione del suo oggetto  (diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali), e delle finalità perseguite. L’incipit del comma 7, in particolare, nel richiamare il “rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente”, qualifica chiaramente la norma come espressiva dei principi di “collaborazione” e “buona fede”, i quali, ai sensi del precedente art. 10, comma 1, devono improntare i rapporti tra contribuente e fisco  e vanno considerati (analogicamente al principio di tutela dell’affidamento, più specificatamente contemplato nello stesso art. 10, comma 2) quali diretta applicazione dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.), di capacità contributiva (art. 53 Cost.) e di uguaglianza, intesa sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3), e quindi in definitiva, come fondamenti dello Stato di diritto e canoni di civiltà giuridica”.

Le garanzie ivi previste – redazione del p.v.c., temine dilatorio di 60 gg. per ulteriori osservazioni prima dell’emanazione dell’avviso di accertamento, relativo ed implicito obbligo di valutare le osservazioni eventualmente proposte – hanno dunque assunto in giurisprudenza e in dottrina (e nella stessa legislazione), proprio con specifico riferimento alla materia tributaria, un valore sempre maggiore, quale strumento diretto non solo a garantire il contribuente, ma anche ad assicurare il migliore esercizio della potestà impositiva, il quale, nell’interesse anche dell’ente impositore, risulterà tanto più efficace, quanto più si rivelerà conformato ed adeguato- proprio in virtù del dialogo tra le parti, ove reso possibile- alla situazione del contribuente, con evidenti riflessi positivi anche in termini di deflazione del contenzioso (se non, ancor prima, nel senso di indurre l’amministrazione ad astenersi da pretese tributarie ritenute alfine infondate).

Già solo i principi sin qui rassegnati, invero, dovrebbero condurre alla conclusione qui auspicata.

Se le garanzie previste dall’art. 12, comma 7 dello Statuto del Contribuente, fondano la propria ratio in principi costituzionali quali il buon andamento della pubblica amministrazione, il principio di capacità contributiva ed il principio di eguaglianza sotto il profilo della ragionevolezza, non si comprende per quale motivo l’effettiva applicazione delle stesse debba dipendere dalla scelta delle modalità operative dell’Amministrazione Finanziaria.

In altri e più semplici termini, se l’art. 12 è espressione di principi e diritti costituzionali, il loro godimento non può essere subordinato ad una scelta operata dalla P.A. obbligata a rispettarli nella propria azione.

La bontà delle conclusioni appena riportate, del resto, trova sponda in un’altra recente pronuncia della S.C., resa stavolta nella sua più autorevole composizione.

Decidendo una controversia in tema di iscrizione di ipoteca, ed in particolare, statuendo sulla portata – innovativa o meno – delle modifiche portate con decreto legge n. 70 del 2011 – che ha introdotto, per l’appunto, l’obbligo di comunicazione preventiva a carico dell’agente riscossore ed un termine dilatorio di 30 gg. per consentire al proprietario l’esercizio del contraddittorio – ha statuito che tale disciplina

non “innova” (soltanto) – se non sul piano formale – la disciplina dell’iscrizione ipotecaria, ma ha (anche e prima ancora) una reale “valenza interpretativa”, in quanto esplicita in una norma positiva il precetto imposto dal rispetto del principio fondamentale immanente nell’ordinamento tributario che prescrive la tutela del diritto di difesa del contribuente mediante l’obbligo di attivazione da parte dell’amministrazione del “contraddittorio endoprocedimentale” ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente medesimoCass. SS.UU. sentenza n. 19667 del 18 settembre 2014.

Coerentemente con tale qualificazione, allora, il rispetto di tale principio è

“dovuto da parte dell’amministrazione indipendentemente dal fatto che ciò sia previsto espressamente da una norma positiva e la cui violazione determina la nullità dell’atto lesivo che sia stato adottato senza la preventiva comunicazione al destinatario.”ibidem.

Se il principio appena espresso vale in tema di iscrizione ipotecaria, in ragione del fatto che trattasi di atto potenzialmente lesivo per la sfera patrimoniale del contribuente, non si vedono ragioni per le quali, mutatis mutandis, le stesse identiche garanzie – peraltro già positivizzate al comma 7 dell’art. 12 dello Statuto – non debbano valere anche in relazione all’atto di accertamento.

Ove tali considerazioni non bastassero – ma, francamente, la conclusione prospettata parrebbe già a questo punto necessitata -, si può dar conto della perfetta aderenza a tale impostazione da parte della Corte Costituzionale.

La Consulta, difatti, con sentenza n. 132/2015 depositata il 07.07.2015, dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37-bis comma 4 del DPR n. 600/73, ha espressamente riconosciuto che

“il rispetto dei diritti di difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario, che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto per esso lesivo, con la conseguenza che i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la propria decisione (ex plurimis, Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 18 dicembre 2008, in causa C-349/07)”.

Ancora, proprio esplicitamente richiamando il pronunciamento delle SS.UU. dianzi rassegnato, la Corte Costituzionale riconosce che

“l’attivazione del contraddittorio endoprocedimentale costituisce un principio fondamentale immanente nell’ordinamento, operante anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa, a pena di nullità dell’atto finale del procedimento, per violazione del diritto di partecipazione dell’interessato al procedimento stesso (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 18 settembre 2014, n. 19667).”

Pur riconoscendo la presenza di talune incertezze che permangono, nella giurisprudenza di legittimità, intorno ai limiti e, soprattutto, alle modalità di applicazione di questi principi, specie nei casi diversi da quelli contemplati dall’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, il Giudice delle Leggi prende atto della

“sussistenza di un orientamento non isolato della stessa Corte di cassazione, che tende a riconoscere forza espansiva alla regola contenuta nella norma denunciata”

arrivando a negare dignità di “diritto vivente” all’opposta interpretazione fondata invece sul principio di antielusività nel diritto tributario.

Il quadro, per come delineato, pare esaustivo ed univoco.

Le massime autorità giurisdizionali nazionali ed europee hanno, di fatto, già statuito sul punto, affermando nella sostanza il doveroso rispetto del contraddittorio endoprocedimentale ogni volta che l’Amministrazione Pubblica emani un atto potenzialmente lesivo della sfera privata del cittadino.

Il che, trasposto nel discorso che ci occupa, equivale esattamente a riconoscere la portata espansiva del comma 7 dell’art. 12 l. 212/2000 anche alle ipotesi di accertamenti operati soltanto negli uffici dell’Agenzia delle Entrate.

Non si vedono, del resto, ragioni che possano legittimare una diversa soluzione.

In conclusione, non può non darsi conto della Ordinanza Cass. Civ. Sez. VI° n. 527 del 14.01.2015 che ha rimesso, ex art. 374 c.p.c. la questione sinora prospettata alle Sezioni Unite della Suprema Corte.

Conforta, invero, che la soluzione qui paventata venga espressamente auspicata anche in tale pronuncia, peraltro con argomentazioni assolutamente sovrapponibili a quelle sinora proposte.

Ivi difatti si legge che

“Va in primo luogo ribadito che il disposto della L. n. 212 del 2000, art. 12, concerne solo le verifiche con accesso nei locali del contribuente e che, fuori da tale ambito, una base normativa dell’obbligo di emettere un verbale di chiusura delle operazioni di verifica fiscale che si concludano con l’accertamento di violazioni finanziarie (non rinvenibile nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 6, che si riferisce anch’esso alle sole ipotesi di accesso nei locali del contribuente) può individuarsi nella L. n. 4 del 1929, art. 24, il quale recita “le violazioni delle norme contenute nelle leggi finanziarie sono constatate mediante processo verbale”; nessuna base normativa espressa può invece invocarsi per affermare il dovere dell’Ufficio di non emettere l’atto impositivo prima del decorso di un termine dilatorio dalla consegna del verbale di constatazione delle violazioni.

Tanto premesso, ritiene il Collegio che l’opzione ermeneutica più lineare per garantire il contraddittorio processuale, nei termini delineati dalla sentenza n. 1968/14, nei procedimenti di verifica c.d. “a tavolino” sia quella di applicare anche a tali verifiche il disposto della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7.

Non si tratterebbe di una interpretazione estensiva della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (la quale presupporrebbe una inammissibile ìnterpretatio ahrogans delle parole: “nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali… etc.” contenute nel primo comma dello stesso articolo) ma di un interpretazione analogica tendente a colmare la lacuna di regolazione del contraddittorio endoprocedimentale nelle verifiche “a tavolino”, utilizzando la norma dettata per il diverso (ma analogo) caso delle verifiche in loco. In tal modo le verifiche “a tavolino” risulterebbero equiparate, quanto a garanzia del contraddittorio endoprocessuale, alle verifiche presso i locali del contribuente.”

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