Matteo De Longis

Arbitrarietà della custodia cautelare in vista dell’estradizione: la Corte Europea condanna l’Italia nel caso Gallardo Sanchez

Un anno e sei mesi di detenzione cautelare, patita in pendenza di una richiesta di estradizione avanzata dalle autorità greche: le ingiustificate lungaggini processuali italiane portano ancora – ma stavolta sub art. 5 § 1 lett. f) CEDU – alla condanna dell’Italia.

E’ questa, dunque, la conclusione cui sono giunti i Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Gallardo Sanchez c. Italia (n. 11620/07, sentenza del 24.03.2015), che, nello specifico, così chiosano il proprio iter motivazionale: “tenuto conto della natura della procedura di estradizione, volta a far perseguire il ricorrente in uno Stato terzo, e del carattere ingiustificato dei ritardi delle autorità giudiziarie italiane, la Corte conclude che la detenzione del ricorrente non è stata «regolare» ai sensi dell’articolo 5 § 1 f) della Convenzione e che, pertanto, vi è stata violazione di questa disposizione”.

Questi i fatti di causa:

Il ricorrente, sig. Manuel Rogelio Gallardo Sanchez, è un cittadino venezuelano nato nel 1965 e residente a Città del Capo. Il 19 aprile 2005 il ricorrente, accusato di incendio volontario dalle autorità greche, fu sottoposto a custodia cautelare a fini estradizionali dalla polizia di Roma in esecuzione di un mandato di arresto emesso dalla corte d’appello di Atene il 26 gennaio 2005 in virtù della Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957. Il 22 aprile 2005 la corte d’appello di L’Aquila convalidò l’arresto del ricorrente e ordinò che fosse mantenuto in carcere. Il 26 aprile 2005 il Ministero della Giustizia chiese alla corte d’appello di mantenere in carcere il ricorrente. All’udienza del 27 aprile 2005, il presidente della corte d’appello, basandosi sull’articolo 717 del codice di procedura penale (CPP) (paragrafo 25 infra), procedette all’identificazione del ricorrente e gli domandò se acconsentisse alla sua estradizione. L’interessato non vi acconsentì. Il 9 giugno 2005 il Ministero della Giustizia informò la corte d’appello che, il 25 maggio 2005, le autorità greche avevano inviato una domanda di estradizione accompagnata da tutta la documentazione necessaria. Il 21 giugno 2005 la procura della Repubblica chiese alla corte di appello di accogliere la domanda di estradizione. L’udienza fu fissata al 15 dicembre 2005. Su richiesta del rappresentante del ricorrente, l’udienza fu rinviata al 12 gennaio 2006. Senza aver compiuto alcun atto istruttorio, con decisione del 12 gennaio 2006, depositata il 30 gennaio 2006, la corte d’appello emise un parere favorevole all’estradizione. Essa verificò la conformità della domanda di estradizione con la Convenzione europea di estradizione e il rispetto dei principi del ne bis in idem e della doppia incriminazione, e scartò l’ipotesi secondo la quale alla base dell’azione penale vi fossero ragioni di natura discriminatoria o politica. Il 3 marzo 2006 il ricorrente presentò ricorso per cassazione, sostenendo, in particolare, che la domanda di estradizione che lo riguardava sarebbe stata inviata dalle autorità greche scaduto il termine di quaranta giorni previsto dall’articolo 16 § 4 della Convenzione europea di estradizione, fatto che secondo lui comportava la illegittimità della sua detenzione. Inoltre, sosteneva che le accuse elevate contro di lui dalle autorità greche non fossero basate su gravi indizi di colpevolezza. Di conseguenza, a suo dire, era necessario porre fine alla sua detenzione. Con sentenza dell’11 maggio 2006, depositata il 18 settembre 2006, la Corte di cassazione respinse il ricorso con una motivazione di una pagina in ragione soprattutto del fatto che la domanda di estradizione era pervenuta entro il termine previsto dalla Convenzione europea di estradizione e che non era sua competenza esaminare la questione riguardante l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Nel frattempo, per tre volte, tra giugno e settembre 2005, il ricorrente aveva chiesto, invano, alla corte d’appello di Roma di essere rimesso in libertà. Nella sua ultima decisione del 27 ottobre 2005, adottata in camera di consiglio nel rispetto del principio del contraddittorio, e senza aver compiuto alcun atto istruttorio, la corte d’appello sottolineò che non esisteva alcuna ragione per discostarsi dalle altre due decisioni di rigetto adottate precedentemente tenuto conto, da una parte, che persisteva il rischio di fuga del ricorrente nonostante il fatto che le autorità lo avessero privato del suo passaporto e, dall’altra parte, che vi era l’obbligo di rispettare gli impegni internazionali dello Stato. Il 9 ottobre 2006 il Ministro della Giustizia firmò il decreto di estradizione. Il 26 ottobre 2006 il ricorrente fu estradato.

§§ 6 – 20, fonte

La Corte, in primo luogo, non dubita della astratta legalità della detenzione ai sensi della normativa italiana vigente – artt. 715 e ss. c.p.p. -; non v’è motivo di ritenere, in altri termini, che la custodia cautelare patita dal ricorrente non fosse stata disposta in conformità del diritto interno e nell’alveo dell’eccezione posta dall’art. 5 § 1 lett. f) CEDU: “Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: […] f) se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione”.

Tanto premesso, tuttavia, non è lecito affermare – come sostenuto dal Governo convenuto in giudizio – che il rispetto dei termini di durata massima della detenzione previsti dalla legge nazionale abbia garantito, automaticamente nel caso di specie, il carattere non arbitrario della privazione di libertà comminata nel caso di specie.

Un principio fondamentale, afferma la Corte, è quello per il quale nessuna detenzione arbitraria possa essere compatibile con l’articolo 5 § 1; la nozione di arbitrio, implicita alla norma de qua, non si arresta al vaglio di conformità con il diritto nazionale, di modo che una privazione della libertà personale, pur essendo del tutto regolare secondo la legislazione interna, potrà comunque essere giudicata arbitraria e dunque contraria alla Convenzione.

Irrilevante, allora, è stato giudicato il rispetto dei termini di fase appositamente previsti dall’art. 714 comma 4 c.p.p. il quale stabilisce, a proposito delle misure coercitive disposte in vista dell’estradizione, che queste sono revocate se dall’inizio della loro esecuzione è trascorso un anno senza che la Corte d’Appello abbia pronunciato la sentenza favorevole all’estradizione ovvero, in caso di ricorso per cassazione contro tale sentenza, un anno e sei mesi senza che sia stato esaurito il procedimento davanti all’autorità giudiziaria.

Pur vertendosi, allora, in tema di durata della procedura di estradizione, la Corte ha precisato come il metro di giudizio in tali fattispecie non sia riducibile alla mera valutazione della durata complessiva della procedura; la valutazione di conformità all’art. 5 § 1 lett. f), difatti, avrà lo scopo di accertare se, indipendentemente da quest’ultimo dato, la durata della detenzione non abbia ecceduto il termine ragionevole necessario per raggiungere lo scopo perseguito. In altre parole, la Corte deve valutare, caso per caso, se, durante il periodo di detenzione contestato, le autorità nazionali abbiano, o meno, dato prova di scarsa diligenza.

Il livello e l’intensità della diligenza da profondere nella trattazione delle richieste di estradizione provenienti da Stati terzi, peraltro, variano in base alla finalità perseguita dalla richiesta stessa: è difatti, necessario distinguere due forme di estradizione per precisare il livello di diligenza imposto per ciascuna, ossia, da una parte, l’estradizione richiesta allo scopo di eseguire una pena già comminata all’esito di un processo penale, e, dall’altra parte, quella richiesta al fine di sottoporre l’estradando a giudizio.

In quest’ultimo caso, essendo il procedimento penale ancora pendente, la persona sottoposta a custodia cautelare a fini estradizionali deve essere considerata innocente; inoltre, in tale fase, la possibilità per quest’ultima di esercitare i propri diritti difensivi in relazione alla fondatezza delle accuse mosse nei suoi confronti è gravemente limitata o addirittura inesistente; da ultimo, deve considerarsi come, di fatto, alle autorità nazionali non sia consentito entrare nel merito di siffatte accuse.

Stante, dunque, la piena applicabilità dell’art. 6 § 2 – presunzione d’innocenza -, l’elevatissima compressione dei diritti di difesa esercitabili all’interno della procedura de qua ed i pressanti limiti cui è sottoposta la cognizione del giudice nazionale, le autorità giudiziarie italiane avrebbero dovuto agire con massima diligenza e speditezza: ma così non è stato.

45. [La Corte] constata che nelle varie tappe della procedura si sono verificati ritardi importanti.

46. Innanzitutto, la prima udienza della corte d’appello è stata fissata al 15 dicembre 2005, ossia sei mesi dopo l’invio della domanda d’estradizione alla corte d’appello e otto mesi dopo aver sottoposto l’interessato a custodia cautelare ai fini tradizionali.

47. La Corte non può condividere la posizione del Governo secondo la quale i ricorsi esercitati del ricorrente per ottenere la sua scarcerazione durante questo periodo possono, da soli, giustificare il ritardo della procedura. In effetti, si tratta di procedure che hanno oggetti e scopi diversi, una ha avuto come scopo quello di verificare se le esigenze formali per l’estradizione fossero soddisfatte, l’altra ha permesso di esaminare se le esigenze che hanno portato all’adozione della misura provvisoria fossero sempre valide e sufficienti. Il fatto che il diritto interno incarichi la stessa corte d’appello di questo duplice compito costituisce una scelta legittima da parte dello Stato, scelta che non può tuttavia essere invocata per giustificare ritardi considerevoli nell’esame di merito della causa. Ad ogni modo, la Corte non vede come le domande ripetute del ricorrente, in principio giustificate perché la detenzione si prolungava in assenza di un’udienza sul merito, avrebbero impedito alla corte d’appello di fissare prima la suddetta udienza. Le decisioni prese dalla corte d’appello si sono fondate esclusivamente sui documenti a sua disposizione, erano adottate in camera di consiglio nel rispetto del principio del contraddittorio e vertevano, principalmente, sull’esame dell’esigenza del mantenimento del ricorrente in carcere in ragione del pericolo di fuga.

48. La Corte sottolinea poi che la causa non era complessa. Il compito della corte d’appello si limitava all’analisi dei seguenti elementi: verificare se la domanda di estradizione era stata presentata secondo le forme previste dalla Convenzione europea di estradizione; assicurarsi che fossero stati rispettati i principi del ne bis in idem e della doppia incriminazione; escludere che alla base delle azioni penali vi fossero ragioni di natura discriminatoria o politica. La legge non autorizzava valutazioni sull’esistenza di gravi indizi di colpevolezza e non è stata necessaria alcuna inchiesta o attività istruttoria.

49. In secondo luogo, la Corte è stupita dal fatto che la Corte di cassazione, dopo aver deciso entro il termine di due mesi sul ricorso del ricorrente, abbia impiegato più di quattro mesi per depositare una sentenza di una sola pagina nella quale si limitava a precisare che la domanda di estradizione era stata inviata dallo Stato richiedente secondo le forme richieste e che lei non era competente per rimettere in discussione le accuse elevate contro il ricorrente dalle autorità greche. Il Governo non produce alcun elemento che possa giustificare un tale ritardo.

50. Infine, per quanto riguarda l’argomento del Governo secondo il quale il ricorrente avrebbe potuto accelerare la procedura non opponendosi alla sua estradizione, la Corte ritiene che se tale opposizione può per principio giustificare un prolungamento della detenzione qualora si renda necessario un controllo giurisdizionale, ciò non può tuttavia sollevare lo Stato dalla sua responsabilità per ogni ritardo ingiustificato durante la fase giudiziaria.

fonte

Alla luce delle considerazioni che precedono, dunque, la conclusione appare necessitata: violazione dell’art. 5 § 1 lett. f) poiché la detenzione cautelare subita dal ricorrente, pur disposta conformemente alla legge, è risultata di durata irragionevolmente sproporzionata rispetto allo scopo – sia pur legittimo – perseguito.

Qui si arresta il decisum  della Corte nel caso Gallardo Sanchez c. Italia.

A parere dello scrivente, invero, la procedura delineata dagli artt. 714 e ss. c.p.p. mostra ulteriori profili di criticità e contrasto con il disposto dell’art. 5 CEDU, con particolare riferimento al § 4 della norma prefata: “Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso a un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima.”

Ai sensi dell’art. 719 c.p.p., difatti, i provvedimenti cautelari personali e patrimoniali, emessi dal presidente della corte di appello o dalla corte di appello, sono ricorribili per cassazione soltanto per violazione di legge, essendo dunque precluso un riesame delle motivazioni che hanno portato alla detenzione dell’estradando.

Ove a ciò si aggiunga, peraltro, la constatazione degli stretti limiti formali entro cui la Corte d’Appello valuta la legittimità della richiesta cautelare proveniente dal Ministro di Grazia e Giustizia, appare di cristallina evidenza come il controllo giurisdizionale predisposto dall’ordinamento italiano difficilmente possa ritenersi efficace ed effettivo come Convenzione impone.

Il mezzo di impugnazione in parola, infatti, affinché possa ritenersi conforme all’art. 5 § 4 dovrebbe consentire l’esame di tutte le circostanza a carico ed a discarico del soggetto detenuto; tanto, ad esempio, è stato affermato nel caso Kadem c. Malta (n. 55263/00, sentenza del 09.01.2003):

In the present case, the parties disagreed as to the extent of the power of the Magistrates’ Court to order release of its own motion. While the applicant argued that the court at issue could not order his release until a decision on his extradition had been adopted, the Government contended that the Magistrates’ Court had the power to order release of its own motion if it came to the conclusion that the arrest was unlawful. Even assuming the Government’s interpretation of national law to be correct, the Court considers that Article 5 § 4 would not be complied with. The matters which, by virtue of Article 5 § 4, the “court” must examine go beyond the one ground of lawfulness cited by the Government. The review required under Article 5 § 4, being intended to establish whether the deprivation of the individual’s liberty is justified, must be sufficiently wide to encompass the various circumstances militating for or against detention. However, the evidence before the Court does not disclose that the Magistrates’ Court before which the applicant filed his claim for immediate release had the power to conduct such a review of its own motion.

§ 42, fonte

Addirittura, in un più risalente caso giudicato dalla Grande Camera – Chahal c. Regno Unito [GC], n. 22414/93, sentenza del 15.11.1996 – la Corte ritenne arbitraria e dunque illegittima la mancata ostensione del materiale probatorio a supporto della richiesta di estradizione, anche in presenza di ragioni di sicurezza nazionale:

The Court recognises that the use of confidential material may be unavoidable where national security is at stake.  This does not mean, however, that the national authorities can be free from effective control by the domestic courts whenever they choose to assert that national security and terrorism are involved (see, mutatis mutandis, the Fox, Campbell and Hartley v. the United Kingdom judgment of 30 August 1990, Series A no. 182, p. 17, para. 34, and the Murray v. the United Kingdom judgment of 28 October 1994, Series A no. 300-A, p. 27, para. 58).  The Court attaches significance to the fact that, as the intervenors pointed out in connection with Article 13 (art. 13) , in Canada a more effective form of judicial control has been developed in cases of this type.  This example illustrates that there are techniques which can be employed which both accommodate legitimate security concerns about the nature and sources of intelligence information and yet accord the individual a substantial measure of procedural justice.

§ 131, fonte

Se tali, allora, sono gli interessi in gioco e gli standards di tutela imposti, è lecito affermare che se il ricorrente avesse soltanto paventato una doglianza circa l’ineffettività dei rimedi risultanti dal combinato disposto degli artt. 714 e ss. c.p.p., oggi ci troveremmo a commentare una sentenza di portata ben più ampia e dirompente.

Gallardo Sanchez c. Italia (Ric. n. 11620/07), Sentenza del 24 marzo 2015

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